L’ esperienza di volontariato con Associazione Mimosa a sostegno dei più invisibili – Intervista alla Presidente Gaia Borgato
Gaia Borgato, presidente di Associazione Mimosa racconta al Mattino di Padova la sua esperienza nell’associazione, dal volontariato in strada iniziato nel 2006 al ruolo di presidente che ricopre oggi. Una lunga avventura, in cui le attività a sostegno delle/dei sex workers cambiano nel tempo. Anche oggi, nel pieno dell’emergenza sanitaria dove Mimosa si affida a una rete solidale per sostenere i più invisibili.
GAIA E QUEI FIORI DI STRADA DA FAR SBOCCIARE ALTROVE
[Cristiano cadoni – Il Mattino di Padova – 30 Aprile 2020]
Ora che la città di notte è deserta, tutto è cambiato e le unità di strada dell’associazione Mimosa non hanno motivo di uscire. Lo fanno di giorno, semmai, perché le donne che aiutano, vittime di tratta, sono chiuse nei loro appartamenti, spesso senza soldi né cibo. «Si sono trovate all’improvviso in uno stato di povertà», racconta Gaia Borgato, presidente di Mimosa. «Non lavorano perché non possono stare in strada e perché non ci sarebbero comunque clienti. Però hanno l’affitto da pagare e spesso anche i debiti contratti per arrivare in Italia. Abbiamo contattato tutte quelle di cui abbiamo il numero di telefono e portiamo loro la spesa sospesa, grazie al progetto “Per Padova noi ci siamo” al quale anche noi stiamo dando un contributo in queste settimane».
Invisibili
Tante nuove povertà sono nascoste in bilocali di periferia. Bisogna cercarle, per tendere loro una mano. Le prostitute sono una di quelle categorie a cui l’emergenza virus ha letteralmente spento l’interruttore. Da un giorno all’altro, tac, tutto chiuso, senza preavviso. Zero sussidi, niente bonus, né aiuti. «Le più fortunate, come quelle dell’Est Europa, sono riuscite a tornare nei loro paesi prima del lockdown totale», dice Gaia. «Ma le altre sono qui e non hanno niente». Sono circa una quarantina quelle che lavorano in città, per lo più in zona industriale. «Negli anni il numero si è molto ridotto, perché la maggior parte adesso riceve i clienti a casa. In un anno, tra arrivi e partenze, contiamo comunque un centinaio di donne, per lo più nigeriane, romene e moldave, più qualche albanese».
La scelta giusta
Gaia ha 37 anni e lavora per la cooperativa Equality che è il contenitore dentro cui si muove Mimosa. «Il mio lavoro è una conseguenza della scelta di volontariato che ho fatto quando mi stavo laureando in psicologia sociale». Era il 2006. «Volevo lavorare con donne e con migranti, perché erano gli ambiti a cui avevo dedicato gli studi. Ho scelto Mimosa e ho trovato un gruppo che mi ha accolta benissimo, fin dall’anno di servizio civile e con cui ho legato». Finito quell’anno, Gaia ha continuato a uscire con l’unità di strada. Nel 2011 è stata assunta da Equality e oggi è coordinatrice dell’area contatto. «Ma non ho mai smesso di essere anche una volontaria», va avanti. «Sono rimasta nel direttivo dell’associazione e poi mi hanno eletta presidente».
La preparazione
Certo, il volontariato per Mimosa non è di sicuro tra i più semplici. «Ma chi lo fa ha il massimo supporto e un’adeguata preparazione», spiega Gaia. «Si fa un colloquio iniziale con i volontari, si spiega loro che l’obiettivo non è salvare il mondo e neanche una sola donna, noi puntiamo sull’autodeterminazione e sull’assistenza socio-sanitaria». Prima di uscire con l’auto arancione dell’unità di strada, ogni volontario fa un corso: sono tre incontri di gruppo nei quali si affrontano i temi delle modalità di contatto, del role-playing, dell’accoglienza e si illustra lo scenario di intervento, quindi le modalità di sfruttamento, le nazionalità coinvolte, il tipo di richieste, senza stereotipi.
La strada
Poi arriva il momento di uscire di notte. «E quello, adesso, è il mio vero problema», racconta Gaia, «perché quando hai famiglia, figli, lavoro, fare certi orari diventa dura». Ma è in strada che Mimosa compie la sua missione. «Avviciniamo tutte le donne, senza saltarne neanche una. Protette o no, più o meno in difficoltà. L’obiettivo non è tirarle fuori dallo sfruttamento, a quello devono arrivarci da sole. Noi vogliamo limitare il danno, dunque soprattutto convincerle a usare il preservativo e a fare una visita medica». Pericoli? Quasi nessuno. Meglio che le volontarie siano donne? Non è importante. «Per le prostitute e per i loro protettori», dice Gaia, «noi siamo come medici. Siamo riconoscibili per via dell’auto, diamo protezione a tutti. Semmai qualche cliente può risultare molesto, ma capita raramente». Il lieto fine – la donna che si libera e vola verso una nuova vita – è raro. «Noi siamo pronte a guidarle verso un reinserimento, anche lavorativo, ma la scelta spetta a loro e purtroppo non è frequente. Questo è uno dei motivi per cui è meglio non affezionarsi alle donne che aiutiamo», confessa Gaia. «Ma a me è successo. Con una di queste ragazze sono rimasta in contatto, l’abbiamo aiutata molto a uscire da una brutta situazione con il marito che la costringeva a prostituirsi. Lei ce l’ha fatta, ora sta bene, ha un lavoro in regola e ci sentiamo regolarmente. È un’eccezione, una bellissima eccezione». —